Amari da botanici

Tutti conosciamo qualcuno che disdegna certi cibi: un amico che non beve caffè, una conoscente che non beve birra o un bimbo che rifiuta i broccoli. Una cosa spesso li accomuna: “sono troppo amari”, dicono. Eppure quando assaggiamo il loro caffè, la loro birra o le loro verdure a noi non sembra affatto così e la sensazione amaricante ci pare tollerabilissima. In realtà, come non siamo tutti uguali per colore di occhi e capelli, statura e impronte digitali, così ci portiamo dietro differenze anche nel modo di percepire alcuni gusti. L’amaro ad esempio è particolarmente vario e alcuni soggetti sono più sensibili di altri.

Questione di gusti?

La diversa sensibilità gustativa è nota dal 1931, quando il chimico inglese Arthur Fox la scoprì casualmente mentre era intento a sintetizzare qualcosa di opposto: dei dolcificanti. Accidentalmente le polveri di una nuova sostanza si dispersero nell’aria e quando i  suoi colleghi la aspirarono, solo alcuni lamentarono una sensazione di amaro in bocca mentre altri non lamentarono nulla. Partendo da questo episodio si dimostrò che per il 30% degli individui quel composto era insapore, mentre era intensamente o moderatamente amaro per gli altri.

Oggi si sa che esistono per l’amaro gruppi distinguibili nei cosiddetti taster, non-taster e supertaster, che lo percepiscono con diversa intensità. Su scala globale, la frequenza dei non-tasters è estremamente variabile e oscilla tra il 7% e il 40% a seconda delle aree geografiche e delle etnie; nella popolazione caucasica la percentuale è del 30%. In Africa la sensibilità pare invece particolarmente bassa e si suppone che questo sia il risultato di una selezione per la resistenza alla malaria. là dove questa malattia è endemica la bassa sensibilità all’amaro potrebbe offrire un vantaggio evolutivo, perché alcuni composti amari delle piante, normalmente rifiutati dai tasters come potenzialmente pericolosi, sono protettivi nei confronti della malaria.

Siamo tutti uguali davanti al cibo?

I cosiddetti supertaster possiedono un numero molto maggiore di papille gustative particolari, dette fungiformi, ossia circa 165 papille/cm2; i non-tasters invece posseggono circa 117 papille/cm2 a differenza della media generale che è di 127 papille/cm2. Molti studi hanno inoltre dimostrato come gli individui supersensibili, oltre all’amaro, siano più percettivi anche al gusto dolce e alla sensazione di piccante. Di contro però i supertasters sono più inclini al consumo di alimenti salati, poiché il sale tende a camuffare l’amaro e la loro distribuzione è correlata con il tipo di cucina e alimentazione che si sono sviluppate nel corso della storia in un certo luogo. Due esempi: l’India dove la percentuale dei non-tasters è circa il 55% e la cucina è piccante e speziata, e l’Africa Occidentale in cui i non-tasters sono circa il 5% e la cucina è tendenzialmente dolce.

Probabilmente, il vostro conoscente non è un noioso rompiscatole, ma è un supertaster.

Perché le piante velenose sono amare?

C’è una risposta semplice: “perché ci vogliono bene e si preoccupano per noi”. Ma è, come molte risposte semplici, del tutto sbagliata. La risposta vera è “perché gli fa comodo così”.

Per difendersi dagli erbivori molte piante producono sostanze tossiche, destinate ad avvelenare i rivali in modo drastico (uccidendoli) o facendoli soffrire più possibile (ad esempio, causando forti mal di pancia o allucinazioni). Le sostanze coinvolte sono molto costose per le piante, che devono investire grandi risorse nella loro produzione in ogni foglia e in ogni ramo, così la loro concentrazione spesso è limitata e con lei gli effetti. Questi ultimi diventano poi evidenti solo quando l’animale bruca, morde o mastica una certa quantità di pianta e non sempre si manifestano immediatamente, ma magari dopo alcune ore.

Non avendo la vendetta tra le sue priorità, per la pianta tutto questo è un problema: che vantaggio c’è nell’intossicare qualcuno se quello comunque sta male solo dopo che ti ha divorato tutte le foglie e non è in grado di abbinare l’esperienza sgradevole a te? Stando così le cose non imparerà mai niente e la prossima volta l’animale mangerà di nuovo tutte le foglie. Il gusto amaro rimedia questo limite e serve proprio a generare una sensazione immediata, facilmente memorizzabile e che manda un messaggio chiaro: “ti ricordi quanto sei stato male l’ultima volta che hai sentito questo sapore?”. Questo effetto è garantito dalla combinazione tra la potenza amara delle sostanze e la sensibilità del gusto animale, che permette di scovare questi composti già a dosi infinitesimali. Siccome poi le cose della natura viaggiano sempre in almeno due direzioni, la stessa capacità di percepire quel gusto è diventata un vantaggio anche per gli animali (uomo incluso), perché è diventato uno strumento fondamentale per evitare di morire avvelenati.

Anche per questo la nostra sensibilità all’amaro rappresenta una strategia di difesa e di individuazione anticipata dei pericoli, ma non ci ha impedito di trasformare una percezione di allarme in qualcosa di utile per altro e persino piacevole grazia a un’attenta selezione delle dosi e delle piante.

Perché anche in natura le dosi sono importanti?

Per capirlo usiamo una pianta ormai nota a tutti: l’aloe. L’intera sua foglia carnosa è organizzata come una fortezza a difesa di un tesoro: un deposito d’acqua da cui tenere lontani gli animali assetati. Il primo comandamento della pianta adattata a climi secchi è “accumulare”; il secondo è “non cedere”: l’umidità che l’ambiente può dare in certi periodi dell’anno va immagazzinata in modo efficiente affinché possa tornare utile nei periodi di magra e va protetto con cura. Dove l’Aloe prospera piove raramente e le piante devono letteralmente far tesoro dell’acqua disponibile in quei momenti, obiettivo conseguito facendo leva sulla chimica e sintetizzando polimeri zuccherini in grado di intrappolare acqua. Le molecole di acqua così bloccate formano un gel trasparente, capace impedire l’evaporazione, e non a caso è posto nel cuore della foglia, più lontano possibile dal calore e dai predatori.

L’acqua però, come tutti i tesori, è anche un valore da proteggere, perché in caso di siccità prolungata fa gola a molti, printi a mordere la foglia come fosse un mangiaebevi. Fatto il deposito, occorre renderlo inespugnabile e la soluzione è anche in questo campo una sinergia tra chimica e forma. Se provassimo a tagliare una foglia di aloe non noteremmo infatti solo il gel trasparente, ma anche un liquido giallo, amarissimo, che esce dai margini della sezione. Si tratta di una miscela di sostanze chiamate antrachinoni, dotate di due effetti: sono amarissime al gusto e se ingerite in eccesso provocano dopo alcune ore una drastica azione lassativa. Le due funzioni non sono casuali: l’effetto purgante agisce da punizione postuma contro il morso di mammiferi assetati e il gusto amaro serve da deterrente, per rievocare agli sventurati le fastidiose conseguenze e convincerli al primo morso che è meglio desistere. Che queste stesse sostanze rientrino (a basse dosi) nella formulazione di amari come i fernet e in prodotti lassativi non è quindi per nulla casuale.

Come mai allora il gel di aloe venduto anche al supermercato non è né amaro né lassativo? La risposta è nell’organizzazione, ovvero nella disposizione “geografica” delle mucillagini e delle sostanze amare e lassative nella foglia. Il gel sta nella parte centrale della foglia e le sostanze di difesa sono concentrate là dove si presume arrivi l’attacco, ovvero sulla parte esterna.